ARTE OSCURA DELL’INTERROGATORIO
L’arte oscura dell’interrogatorio
http://www.ecn.org/filiarmonici/bowden.html
Mark Bowden
The Atlantic Monthly, ottobre 2003
Rawalpindi, Pakistan. Un giorno che forse era un sabato o forse no, e forse era il 1 marzo o forse no, in una casa che forse era l’abitazione di Ahmad Abdul Qadoos o forse no, un commando di soldati pachistani e statunitensi ha svegliato bruscamente il famigerato terrorista Khalid Sheikh Mohammed. Si aspettavano uno scontro a fuoco e avevano fatto irruzione nella casa correndo e urlando. Invece l’hanno trovato che dormiva. L’hanno tirato giù dal letto, incappucciato e legato. L’hanno fatto salire su una macchina e portato via.
È stato il più importante arresto della guerra al terrore. Sheikh Mohammed è considerato l’ideatore di due attentati al World Trade Center: quello fallito del 1993 e quello catastroficamente riuscito di otto anni dopo. Si pensa che fosse dietro agli attentati contro le ambasciate americane in Kenya e Tanzania del 1998, e a quello di due anni dopo contro l’Uss Cole della marina degli Stati Uniti, e forse anche dietro l’omicidio del giornalista del Wall Street Journal, Daniel Pearl, avvenuto l’anno scorso.
Qualcuno sostiene che l’arresto di Sheikh Mohammed sia avvenuto molto prima del 1 marzo, data in cui è stato annunciato dai servizi segreti pachistani dell’Inter-Services Intelligence (Isi). Abdul Qadoos, un uomo pallido e anziano, mi ha detto che Sheikh Mohammed non era in quella casa “né c’era mai stato”. Sembra che il video ufficiale dell’arresto sia un falso. Mai dettagli hanno poca importanza: ormai quasi tutti sono convinti che Sheikh Mohammed sia nelle mani degli americani già da qualche tempo. Nelle prime ore della sua prigionia, gli hanno tolto il cappuccio e hanno scattato una fotografia. Si vede un uomo scuro di carnagione, robusto, villoso, con gli occhi velati e grossi baffi neri, sopracciglia spesse, un’ombra scura di barba sul viso tondo, triplo mento, lunghe basette, e capelli lunghi, folti e arruffati. È in piedi di fronte a una parete di colore chiaro con la vernice scrostata, leggermente piegato in avanti, come un uomo che ha le mani legate dietro la schiena. Guarda in basso, a destra della macchina. Sembra intontito e depresso.
Sheikh Mohammed è un uomo intelligente. C’è un’aria di ansiosa incertezza nell’espressione che ha in quella prima foto dopo l’arresto. È lo sguardo di un uomo che si è svegliato in un incubo. Tutto quello che ha dato senso alla sua vita – il suo ruolo di marito e di padre, la sua leadership, la sua statura morale, i suoi piani, le sue ambizioni – è finito. Nel suo futuro ci sono mesi, forse anni di prigionia e interrogatori, un tribunale militare e quasi sicuramente una condanna a morte. Sembra di vedere il suo cervello che lavora, analizzando la situazione. Come passerà i suoi ultimi mesi o anni? Manterrà un dignitoso silenzio di sfida? O si arrenderà al nemico e tradirà i suoi amici, la sua causa e la sua fede?
Faccia da schiaffi
In questo periodo si parla tanto della schiacciante tecnologia militare degli Stati Uniti, della professionalità dei soldati americani, delle loro armi sofisticate e dei loro sistemi d’intercettazione; ma l’arma più importante che hanno potrebbe essere l’arte d’interrogare. Per contrastare un nemico che confida sulla clandestinità e sulla sorpresa, lo strumento più utile sono le informazioni, e spesso l’unica fonte di informazioni è il nemico stesso. Gli uomini come Sheikh Mohammed, presi vivi in questa guerra, sono i tipici candidati a subire quest’arte macabra. Intellettuali, raffinati, profondamente religiosi e ben addestrati, rappresentano una sfida perfetta per chi deve interrogarli. Ottenere le informazioni di cui sono in possesso potrebbe permetterci di impedire gravi attacchi terroristici, scoprire la loro organizzazione e salvare migliaia di vite. Loro stessi e la situazione in cui si trovano sono uno degli argomenti più forti a favore dell’uso della tortura.
La tortura è ripugnante. È un atto di crudeltà, uno strumento di oppressione politica antico e rozzo. Viene usata per terrorizzare le persone o per strappare confessioni a presunti colpevoli. È la classica scorciatoia degli investigatori pigri o incompetenti. Esempi orribili delle conseguenze della tortura sono catalogati e pubblicati ogni anno da Amnesty International, Human Rights Watch e altre organizzazioni che combattono questo tipo di abusi in tutto il mondo. Non si può fare a meno di essere solidali con le loro vittime innocenti e impotenti. Ma i terroristi rappresentano una questione più difficile. Sono casseforti in cui sono riposte informazioni che potrebbero salvare delle vite. Sheikh Mohammed ha i suoi motivi politici e religiosi per progettare omicidi di massa, e c’è chi applaudirebbe l’atteggiamento di sfida che mantiene nonostante sia prigioniero. Ma il suo silenzio lo paghiamo col sangue.
La parola tortura viene dal verbo latino torquere, cioè “torcere”. Il dizionario inglese Webster’s dà questa definizione: “L’atto d’infliggere un dolore intenso per ottenere informazioni e confessioni o per vendetta”. Vi prego di notare l’aggettivo “intenso”, che evoca immagini di ruote, pollici schiacciati, scalpelli, marchi a fuoco, pozzi ardenti, strumenti per impalare, scosse elettriche e tutti gli altri diabolici strumenti concepiti dagli esseri umani per mutilare e procurare dolore. Molti generi di crudeltà sono ancora diffusi soprattutto in America Centrale e Meridionale, in Africa e in Medio Oriente. La polizia di Saddam Hussein marchiava a fuoco sulla fronte ladri e disertori, e tagliava la lingua a chi offendeva lo stato. In Sri Lanka i prigionieri vengono appesi a testa in giù e bruciati con ferri roventi. In Cina vengono picchiati con bastoni e tormentati con pungoli per il bestiame. In India la polizia infila spilli nelle unghie e nelle dita dei prigionieri. Le mutilazioni e le violenze fisiche sono legali in Somalia, Iran, Arabia Saudita, Nigeria, Sudan, e in altri paesi che applicano la sharia; ai ladri vengono tagliate le mani e le donne condannate per adulterio rischiano la lapidazione. Vari governi del mondo continuano a usare lo stupro e la mutilazione, e a colpire i familiari, compresi i bambini, per estorcere confessioni o informazioni ai prigionieri. In tutto il mondo le persone civili condannano senza esitazione queste pratiche. Ma ci sono anche dei metodi che, secondo alcuni, non sono vere torture.
Sottili distinzioni
Le cosiddette “torture leggere” includono la privazione del sonno, l’esposizione al caldo o al freddo, l’uso di droghe per indurre confusione, maltrattamenti (schiaffi, spinte, strattoni), la costrizione a stare in piedi per giorni o a stare seduto in posizioni scomode, e il far leva sulle paure del prigioniero per se stesso e per la sua famiglia. Anche se strazianti per la vittima, queste tecniche generalmente non lasciano segni permanenti e non producono danni fisici duraturi. La Convenzione di Ginevra non fa distinzione: proibisce qualsiasi maltrattamento nei confronti dei prigionieri. Ma alcuni paesi che per altri versi si sono impegnati a rinunciare alla brutalità hanno usato la tortura leggera in circostanze che ritenevano giustificabili. Nel 1987 Israele tentò di codificare una distinzione tra la tortura, proibita, e una “moderata pressione fisica”, permessa in casi particolari. Anzi, alcuni ufficiali di polizia, soldati e agenti dei servizi segreti che condannano i metodi “brutali” sono convinti che eliminare tutte le forme di pressione fisica sarebbe un’ingenuità pericolosa. Pochi sono favorevoli all’uso delle pressioni fisiche per estorcere confessioni, soprattutto perché spesso le vittime sono disposte a dire qualsiasi cosa (fino al punto di autoincriminarsi) pur di mettere fine al dolore. Ma molti veterani del mestiere sono convinti che sia giustificato usare questi metodi per estorcere informazioni quando si possono salvare delle vite costringendo un soldato nemico a rivelare la posizione del suo esercito o un terrorista a rivelare i dettagli di un complotto. Dal loro punto di vista, il valore dell’incolumità fisica di un prigioniero va misurato con le vite che si potrebbero salvare costringendolo a parlare. Un metodo che consenta di ottenere informazioni vitali senza infliggere a nessuno danni permanenti è non solo migliore, ma sembra anche moralmente accettabile. Da ora in poi userò la parola “tortura” per indicare i metodi tradizionali più brutali e “coercizione” per indicare la tortura leggera o una moderata pressione fisica.
I prigionieri
Non si sa esattamente quanti siano i presunti terroristi imprigionati oggi negli Stati Uniti. Circa 680 erano detenuti a Camp X-Ray, la prigione costruita a Guantanamo, sulla punta sudorientale di Cuba. Molti di loro sono considerati soldati semplici del movimento islamico, catturati in Afghanistan durante la disfatta dei taliban. Vengono da quarantadue paesi. Decine di altri detenuti, considerati i loro capi, sono stati o sono ancora detenuti in varie località sparse in tutto il mondo: in Pakistan, Arabia Saudita, Egitto, Sudan, Siria, Giordania, Marocco, Yemen, Singapore, nelle Filippine, in Thailandia e in Iraq, dove l’esercito statunitense ora tiene prigioniere le alte gerarchie dell’ex regime di Saddam Hussein. Alcuni sono detenuti in prigioni note, come quella di Bagram e l’isola di Diego Garcia. Altri figure di maggior rilievo come Sheikh Mohammed, Abu Zubaydah, Abd al Rashim al Nashiri, Ramzi bin al Shibh e Tawfiq bin Attash si trovano in località segrete.
È probabile che i nomi e l’arresto di alcuni terroristi catturati non siano stati rivelati; una persona può essere trattenuta per mesi prima che venga messo in scena il suo “arresto”. Una volta che tutti sanno che un sospettato di alto rango è in prigione, il valore delle sue informazioni diminuisce. La sua organizzazione si sparpaglia, modifica piani, travestimenti, coperture, codici, tattiche e metodi di comunicazione. Le migliori opportunità di raccogliere informazioni si hanno nelle prime ore dopo l’arresto, prima che il suo gruppo venga a sapere che è stata aperta una breccia. Mantenere segreto un arresto per giorni o settimane prolunga questa opportunità. Perciò, lo ripeto, non si conosce il numero esatto dei presunti terroristi che sono in prigione. A settembre dello scorso anno, davanti alle commissioni sui servizi segreti del parlamento statunitense, il coordinatore antiterrorismo del dipartimento di stato Cofer Black ha dichiarato che sono circa tremila.
Tutti questi sospetti vengono interrogati rigorosamente, ma a quelli di grado più alto viene applicato il trattamento coercitivo. E se dobbiamo credere ai rapporti ufficiali e ufficiosi del governo, il metodo usato funziona. In vari rapporti si dice che i terroristi più duri stanno collaborando o, come minimo, stanno dando delle informazioni utili, dettagliate e verificabili. Alla fine di marzo, Time riferiva che Sheikh Mohammed aveva “fornito agli investigatori statunitensi i nomi e la descrizione di una dozzina di personaggi chiave di al Qaeda che si riteneva stessero preparando attacchi terroristici contro l’America e altri paesi occidentali” e aveva “aggiunto alla descrizione dettagli fondamentali”.
Gli Stati Uniti torturano i loro prigionieri? Nella prigione afgana tre detenuti sono morti, e sembra che a Guantanamo diciotto prigionieri abbiamo tentato il suicidio. Uno di loro è sopravvissuto al tentativo di impiccarsi, ma è rimasto in coma e non si riprenderà. Shah Muhammad, un pachistano di vent’anni che è rimasto a Camp X -Ray per diciotto mesi, mi ha raccontato di aver ripetutamente tentato di uccidersi per la disperazione: “Mi stavano facendo impazzire”, ha detto.
In un articolo del dicembre 2002, Dana Priest e Barton Gellman del Washington Post affermavano che a Bagram si usavano “violenze fisiche e psicologiche”, e un articolo del New York Times di marzo descriveva i maltrattamenti riservati ai detenuti. Quello stesso mese, Irene Kahn, segretario generale di Amnesty International, ha scritto una lettera di protesta al presidente Bush. A giugno, dietro insistenza di Amnesty e di altre organizzazioni, il presidente Bush ha riaffermato che gli Stati Uniti sono contrari alla tortura: “Invito tutti i governi a unirsi agli Stati Uniti e a tutta la comunità dei paesi rispettosi delle leggi nel proibire, scoprire e condannare qualsiasi atto di tortura. Noi daremo l’esempio”. Una risposta leggermente più dettagliata era stata preparata due mesi prima dal massimo legale del Pentagono, William J. Haynes II, in una lettera a Kenneth Roth, direttore di Human Rights Watch (le mie richieste di intervistare qualcuno del Pentagono, della Casa Bianca o del dipartimento di stato sono state respinte). Haynes aveva scritto: “Gli Stati Uniti interrogano i combattenti nemici per ottenere informazioni che potrebbero aiutare la coalizione a vincere la guerra e impedire ulteriori attacchi terroristici contro i cittadini degli Stati Uniti e di altri paesi. Come il presidente ha ribadito recentemente all’Alto commissariato nelle Nazioni Unite per i diritti umani, la politica degli Stati Uniti condanna e vieta la tortura. Quando interroga i combattenti nemici, il personale statunitense è tenuto a seguire questa politica e a rispettare tutte le leggi in vigore che vietano la tortura”.
Le parole scelte da Haynes sono cautamente rivelatrici. Le organizzazioni per la difesa dei diritti umani e l’amministrazione statunitense definiscono i termini in modo diverso. Tuttavia, pochi direbbero che costringere Sheikh Mohammed a parlare non sarebbe nell’interesse generale dell’umanità. Quindi, prima di affrontare i problemi morali e legali sollevati dagli interrogatori, forse la domanda che dovremmo porci è: che cosa funziona?
Gli orgasmi delle scimmie
La ricerca di un metodo infallibile per condurre gli interrogatori è stata lunga, sgradevole e generalmente infruttuosa. Gli scienziati nazisti facevano esperimenti sui detenuti dei campi di concentramento, sottoponendoli a temperature estremamente calde o estremamente fredde, somministrando loro droghe e procurandogli acute sofferenze nel tentativo di vedere quale combinazione di orrori potesse servire a ottenere collaborazione. Questi tentativi produssero una lunga lista di morti e mutilati, ma nessun sistema affidabile per far parlare le persone.
Nel 1953 John Lilly, del National Institute of Mental Health statunitense, scoprì che inserendo degli elettrodi nel cervello delle scimmie, poteva stimolare dolore, rabbia, paura e piacere. Ne inserì uno nel cervello di una scimmia maschio e diede alla scimmia un interruttore che avrebbe fatto scattare immediatamente l’erezione e l’orgasmo (la scimmia girava l’interruttore in media ogni tre minuti, confermando così lo stereotipo del suo sesso). L’idea di manipolare il cervello dall’interno attirò subito l’interesse della Cia, che immaginava di poter aggirare in questo modo le difese degli informatori più riluttanti. Ma Lilly abbandonò la ricerca dopo aver osservato che l’introduzione degli elettrodi danneggiava il cervello.
Questi e altri esperimenti sono riportati in dettaglio nel libro di John Marks, The search for the Manchurian candidate: the Cia and mind control (Alla ricerca del candidato della Manciuria: la Cia e il controllo della mente) del 1979, e nel libro di George Andrews, Mkultra: the Cia top secret program in human experimentation and behavior modification (Il programma segreto della Cia per la sperimentazione sugli esseri umani e la modificazione dei comportamenti) del 2001. Andrews riassume varie informazioni scoperte durante un’inchiesta del congresso sugli eccessi della Cia. Il libro di Marks è più sensazionalistico: tende a interpretare l’interesse dell’agenzia per le scienze comportamentali, l’ipnosi e le droghe che alterano il funzionamento della mente come un progetto per la creazione di agenti segreti simili a zombie, anche se sembra che il vero scopo fosse trovare un metodo per costringere le persone a parlare.
L’lsd aveva creato molte speranze. Scoperto per caso in un laboratorio farmaceutico svizzero nel 1943, l’lsd produce potenti effetti di alterazione mentale anche a piccolissime dosi. È più potente della mescalina,che aveva i suoi sostenitori, e poteva facilmente essere somministrato senza che la vittima se ne accorgesse, mettendolo di nascosto nel cibo o nelle bevande. La speranza era che, trovandosi in uno stato mentale così artificialmente disinibito, un informatore avrebbe perso di vista i propri obiettivi e il proprio senso di lealtà. Varie università importanti avviarono studi sull’lsd. La maggior parte degli esperimenti causarono solo scandalo e imbarazzo. Gli effetti della droga erano troppo imprevedibili perché potesse essere utilizzata negli interrogatori. Tendeva ad amplificare il tipo di sentimenti che inibiscono la collaborazione. Paura e ansia si trasformavano in allucinazioni e fantasie terrificanti, che rendevano ancora più difficile strappare segreti e aggiungevano un tocco di irrealtà a qualsiasi informazione venisse rivelata. Furono condotti esperimenti anche con l’eroina e con i funghi psichedelici, ma nessuna delle due sostanze costringeva gli uomini a liberarsi dei propri segreti in modo affidabile. Anzi, sembrava che le droghe potenziassero la capacità di mentire di alcune persone. Inizialmente, la scopolamina diede qualche speranza, ma spesso induceva allucinazioni.
I barbiturici erano promettenti e venivano già usati con buoni risultati dagli psichiatri in appoggio alla terapia. Alcuni ricercatori sostenevano che i trattamenti con l’elettroshock facevano esplodere, per così dire, le informazioni nella mente dei soggetti. Droghe come la marijuana, l’alcol e il pentotal possono ridurre le inibizioni, ma non cancellano le convinzioni profonde. E più la droga è potente, meno affidabile è la testimonianza. Secondo le mie fonti dei servizi segreti, oggi si usano alcune droghe negli interrogatori più critici, e le preferite sono le metanfetamine temperate da barbiturici e cannabis. Ma non sono più efficaci di una persona abile a condurre un interrogatorio.
Il manuale Kubark
Risultati migliori sembrava si potessero ottenere con le privazioni sensoriali e l’isolamento. In molte persone, gravi privazioni sensoriali inducono rapidamente la depressione; questi effetti sono documentati nel famigerato manuale della Cia sugli interrogatori del 1963, il Kubark manual, che resta la raccolta più completa e dettagliata mai pubblicata sui metodi coercitivi usati negli interrogatori – considerando la riluttanza ufficiale a discutere certe questioni o a metterle per iscritto.
Scovato nel 1997 grazie al Freedom of Information Act (Legge statunitense sulla trasparenza dell’amministrazione) dai giornalisti del Baltimore Sun Gary Cohn, Ginger Thompson e Mark Matthews, il Kubark manual rivela quello che pensava la Cia dei metodi più duri impiegati dai militari e dai servizi segreti. Molte delle pratiche e delle teorie che espone si ritrovano immutate nell’Human resource exploitation training manual (Manuale di addestramento allo sfruttamento delle risorse umane) del 1983, noto come Honduras manual, che la Cia aveva cercato di ammorbidire con una affrettata revisione prima della pubblicazione. Il manuale era stato reso pubblico allo stesso tempo da Cohn e Thompson. Se esiste una Bibbia degli interrogatori, è sicuramente il Kubark manual.
Una cosa che appariva chiara da tutti gli esperimenti era che, qualunque droga o metodo venisse usato, i risultati variavano da persona a persona. Era importante, quindi, provare a definire certi tipi di personalità e scoprire quali metodi funzionavano meglio con ciascun tipo. Ma la divisione in gruppi era di un’approssimazione ridicola – il Kubark manual elencava il tipo “ordinato e ostinato”, quello “avido ed esigente” e quello “ansioso ed egocentrico” – e i metodi prescritti per interrogarli variavano molto poco e a volte erano sciocchezze (il consiglio per chi doveva interrogare un tipo ordinato e ostinato era di farlo in una stanza particolarmente ordinata).
Erano categorie inutili. Ogni persona e ogni situazione sono diverse; alcune persone all’inizio della giornata sono avide ed esigenti e alla fine sono ordinate e ostinate. A quanto sembra l’unica cosa che fa regolarmente funzionare un interrogatorio è la persona che lo conduce. E alcune persone sono più brave di altre. “Quali sono le caratteristiche di una persona che conduce bene un interrogatorio?”, si chiede Jerry Giorgio, il leggendario uomo del terzo grado del dipartimento di polizia di NewYork. “Dev’essere uno a cui piace la gente e che piace alla gente. Dev’essere uno che sa mettere gli altri a proprio agio. Perché più sono a loro agio, più parlano; e più parlano, più si mettono nei guai e più trovano difficile sostenere una bugia”.
I pacifisti
In un mattino di primavera, negli uffici di Amnesty lnternational di Washington, Alistair Hodgett e Alexandra Arriaga mi stavano illustrando il nobile tentativo della loro organizzazione di combattere la tortura in tutto il mondo. Sono giovani brillanti, simpatici, intelligenti, impegnati e attraenti, pieni di buoni propositi. Le persone perbene di tutto il mondo sono d’accordo su questo: la tortura è una cosa malvagia e indifendibile. Ma è sempre così?
Ho mostrato ai due un articolo che avevo preso dal New York Times di quel giorno. Parlava di un tragico caso di rapimento avvenuto a Francoforte, in Germania. Il 27 settembre 2002 uno studente di legge di Francoforte aveva rapito un bambino di 11 anni di nome Jakob von Metzler. Il suo volto sorridente appariva in un riquadro accanto all’articolo. Il rapitore aveva tappato il naso e la bocca di Jakob con il nastro adesivo, lo aveva avvolto nella plastica e nascosto in un boschetto nei pressi di un lago. La polizia aveva arrestato il sospetto quando aveva cercato di andare a incassare i soldi del riscatto, ma il ragazzo non aveva voluto rivelare dove aveva lasciato il bambino. Convinto che Jakob fosse ancora vivo, il vice capo della polizia di Francoforte, Wolfgang Daschner, aveva detto ai suoi subordinati di minacciare il sospetto. Secondo il ragazzo, gli avevano detto che stava arrivando in aereo uno “specialista” che gli avrebbe inflitto un tipo di dolore che non aveva mai conosciuto. Lo studente aveva detto subito alla polizia dove era nascosto Jakob, che purtroppo fu trovato morto. Il giornale diceva che Daschner era sotto tiro da parte di Amnesty lnternational e di altre organizzazioni per aver minacciato la tortura. “In questo caso”, ho chiesto, “pensate veramente che fosse sbagliato minacciare la tortura?”. Hodgett e Arriaga hanno cominciato ad agitarsi sulle sedie. “Ci rendiamo conto che esistono situazioni difficili”, ha detto Arriaga, che è la responsabile per i rapporti con il governo dell’organizzazione. “Ma noi siamo contrari alla tortura in qualsiasi circostanza, e minacciare la tortura significa infliggere sofferenza mentale”.
Sono pochi gli imperativi morali così giusti in astratto, ma che poi crollano miseramente quando si affronta un caso particolare. Un modo per risolvere questo dilemma è considerare due tipi di sensibilità contrapposte: quella del guerriero e quella dell’uomo civile. Per la sensibilità civile la cosa più importante è la legalità. Quali che siano le difficoltà presentate da una certa situazione, come quella di dover trovare il povero Jakob von Metzler prima che morisse soffocato, gli abusi di potere dell’autorità sono considerati il pericolo maggiore per la società. Accettare che si faccia eccezione in un caso (per salvare Jakob) aprirebbe la porta a un male maggiore. Per la sensibilità del guerriero, invece, bisogna fare tutto il necessario per compiere una missione. Per definizione, la guerra esiste perché gli strumenti del mondo civile hanno fallito. Quello che conta è vincere e salvare la vita alle proprie truppe. Per un comandante che si trova in una zona di guerra, la vita di un nemico catturato che non collabora vale molto poco rispetto alle vite dei suoi uomini.
Le dichiarazioni ufficiali del presidente Bush e di William Haynes in cui si afferma che il governo degli Stati Uniti è contrario alla tortura hanno ricevuto il plauso di molte organizzazioni per la difesa dei diritti umani. Ma ripeto: il linguaggio che hanno usato è stato scelto accuratamente. Che cosa intende l’amministrazione Bush per tortura? Condivide veramente la definizione onnicomprensiva degli attivisti? Nella sua lettera al direttore di Human Rights Watch, Haynes ha usato l’espressione “combattenti nemici” per descrivere le persone arrestate. Chiamarle “prigionieri di guerra” significava riconoscergli il diritto di essere protetti dalla Convenzione di Ginevra, che vieta l’uso della “tortura fisica e mentale” e “qualsiasi altra forma di coercizione”, compreso “un trattamento spiacevole o dannoso di qualsiasi tipo” (per usare le parole sprezzanti di un militare: “Proibisce qualsiasi cosa tranne tre pasti al giorno, un letto caldo e l’accesso a Harvard”). I detenuti che sono cittadini americani hanno il vantaggio delle garanzie costituzionali, quindi non possono essere trattenuti senza un’accusa e hanno diritto a un avvocato. Contro gli abusi più gravi, sarebbero protetti anche dall’ottavo emendamento della costituzione, che vieta qualsiasi “forma di punizione crudele e insolita”. L’unico detenuto di Guantanamo nato negli Stati Uniti è stato trasferito in un’altra prigione, e sul suo status di prigioniero infuria una battaglia legale. Ma se le altre migliaia di detenuti non sono né prigionieri di guerra (anche se la maggior parte di loro sono stati catturati durante la guerra in Afghanistan) né cittadini americani, a Guantanamo possono farne quello che vogliono. Sono protetti solo dalle promesse fatte alla comunità internazionale, che di fatto è impossibile far rispettare.
Quali sono queste promesse? Le più venerabili sono quelle della Convenzione di Ginevra, ma gli Stati Uniti le hanno aggirate nella guerra al terrorismo. Al secondo posto vengono quelle della Dichiarazione universale dei diritti umani, che, all’articolo 5, afferma: “Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli, inumani o degradanti”. C’è anche la Convenzione contro la tortura, l’accordo citato da Bush lo scorso giugno, che sembrerebbe escludere alcuni dei metodi d’interrogatorio più aggressivi. All’articolo 1 afferma: “Ai fini di questa Convenzione, il termine ‘tortura’ designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze intensi, fisici o psichici”.
Notate ancora una volta la parola “intensi”. Gli Stati Uniti stanno sfuggendo di nuovo con uno stratagemma verbale all’accusa di essere dei “torturatori”. In materia di interrogatori, le forze armate e i servizi segreti degli Stati Uniti hanno sempre finto un rispetto formale per gli accordi internazionali e continuato a usare la coercizione ogni volta che le circostanze glielo hanno permesso. Tuttavia, l’esercito e la Cia sono sempre stati sinceri nelle loro pubblicazioni sull’uso dei metodi coercitivi. Il Kubark manual fa solo pochi cenni nelle sue 128 pagine alla possibilità di avere scrupoli sui metodi che definisce con un prezioso eufemismo “tecniche esterne”: “A parte ogni considerazione morale, l’uso di tecniche esterne per manipolare le persone porta con sé il grave rischio di denunce, pubblicità negativa o altri tentativi di ritorsione”. L’uso del termine “ritorsione” è significativo, implica che qualsiasi critica a questi metodi vergognosi, di tipo legale, morale o giornalistico, non avrebbe alcun valore in sé e sarebbe considerata come un contrattacco del nemico.
Bill Wagner, un ex agente della Cia, ricorda di aver frequentato il corso di tre settimane sugli interrogatori alla cosiddetta “Fattoria” di Williamsburg, in Virginia, nel 1970. Fino a quando non fu abolito qualche anno dopo, era considerato il “corso principale” dell’agenzia, dice Wagner, e solo le reclute migliori venivano invitate a frequentarlo. Alcuni volontari recitavano la parte dei prigionieri in cambio della garanzia che sarebbero stati ammessi a una delle sessioni successive del corso. Venivano privati del sonno, restavano inzuppati d’acqua in stanze gelide, costretti a rimanere seduti o in piedi in posizioni scomode per lunghi periodi, lontani dalla luce del sole e da ogni contatto sociale, costretti a mangiare cibi disgutosi e sottoposti a finte esecuzioni. Almeno il dieci per cento dei volontari crollava, anche se sapeva che era solo un addestramento. Wagner dice che molti di quelli che avevano fatto da vittime si rifiutavano in seguito di partecipare al corso e di vittimizzare altre persone: “Non avevano più lo stomaco per farlo”, dice.
Diversi anni dopo l’agenzia cancellò il corso. Gli scandali degli anni di Nixon avevano messo la Cia al centro di indagini senza precedenti. Nei trent’anni successivi le scuole di spionaggio e la maggior parte delle organizzazioni simili furono smantellate. Anche gli Stati Uniti non avevano più lo stomaco per certi metodi.
Il nocciolo del problema
Questo è il nocciolo del problema. Forse è chiaro che la coercizione a volte è la scelta giusta, ma come si fa a consentirla e al tempo stesso a controllarla? Il sadismo è profondamente radicato nella psiche umana. In ogni esercito ci sono soldati che si divertono a prendere a calci e a picchiare i prigionieri. Gli uomini che hanno il potere tendono ad abusarne, non tutti, ma molti. Come fa un paese a controllare quello che avviene nei suoi angoli più bui e lontani, nelle prigioni, sui campi di battaglia, e nelle stanze degli interrogatori, soprattutto quando le sue forze sono sparse in tutto il pianeta? Se si vuole prendere in considerazione un cambiamento della politica nazionale, bisogna prevedere le conseguenze pratiche. Se eliminiamo ufficialmente il divieto di tortura, anche se solo parzialmente e in alcuni rari casi specifici, il problema sarà: come possiamo garantire che la pratica non si diffonda, non solo come mezzo per ottenere informazioni vitali e in casi eccezionali, ma come normale strumento di oppressione?
Israele è bersaglio di attacchi terroristici da anni, e ha affrontato apertamente i dilemmi che la lotta al terrorismo pone a una democrazia. Nel 1987 una commissione guidata dal giudice in pensione della corte suprema Mishe Landau stilò una serie di raccomandazioni per i servizi di sicurezza. La commissione acconsentiva all’uso di “una moderata pressione fisica” e di “una pressione psicologica non violenta” negli interrogatori di prigionieri in possesso di informazioni che potevano servire a impedire un imminente attacco terroristico. Dodici anni dopo, la corte suprema israeliana ha revocato quelle raccomandazioni, vietando l’uso di qualsiasi forma di tortura. Negli anni immediatamente successivi alla commissione Landau, l’uso di metodi coercitivi si era molto diffuso nei Territori occupati. Si calcola che vi siano stati sottoposti più di due terzi dei palestinesi arrestati.
Ogni tentativo di regolamentare la coercizione era fallito. In teoria era facile immaginare una situazione estrema, e un sospetto che chiaramente meritava di essere maltrattato. Ma nella vita reale dove bisognava tracciare il limite? I metodi coercitivi dovevano essere applicati solo a chi sapeva di un attacco imminente? E se qualcuno era a conoscenza di attacchi progettati per qualche mese o qualche anno dopo? “Se si pensa che con la tortura si possono ottenere informazioni utili, allora perché non usarla sempre?”, chiede Jessica Montell, direttrice di B’T-selem, un’organizzazione per la difesa dei diritti umani di Gerusalemme. “Perché fermarsi alla bomba che è stata già collocata e alle persone che sanno dov’è l’esplosivo? Perché non quelli che fabbricano le bombe, o quelli che regalano soldi o forniscono i fondi per fabbricare le bombe? Perché fermarsi alla vittima? Perché non torturare i suoi familiari, parenti e vicini? Se il fine giustifica i mezzi, dove tracciamo il limite?”.
E come si fa a distinguere tra “coercizione” e “tortura”? Se tenere un uomo seduto su una minuscola sedia che lo costringe ad aggrapparsi dolorosamente con le mani legate quando scivola in avanti va bene, allora perché non applicare una piccola pressione alla base del collo per far aumentare quel dolore? Quand’è che gli strattoni e le spinte, che possono essere violente al punto da uccidere o ferire gravemente un uomo, superano il confine tra coercizione e tortura?
Montell ha riflettuto molto su questi problemi. Anche se lei e la sua organizzazione si oppongono risolutamente all’uso della coercizione (che lei considera equivalente alla tortura), Montell riconosce che il problema morale che pone non è semplice. Sa benissimo che l’uso della coercizione negli interrogatori non è stato completamente eliminato dopo che la corte suprema israeliana lo ha vietato nel 1999. La differenza è che quando usano “metodi aggressivi”, adesso quelli che interrogano sanno che stanno violando la legge e potrebbero essere incriminati. Questo fa da deterrente e tende a limitare l’uso della coercizione alle situazioni più difendibili.
“Se io stessi interrogando qualcuno”, dice, “e avessi la sensazione che fosse in possesso di informazioni che possono permettermi di impedire una catastrofe, immagino che farei quello che devo fare per impedire quella catastrofe. Lo stato però è obbligato a processarmi per aver violato la legge. Io potrò dire che quelli erano gli elementi di cui disponevo, che era quello che credevo giusto in quel momento. Posso invocare a mia discolpa lo stato di necessità, e poi il tribunale deciderà se è stato o meno ragionevole che io abbia infranto la legge per evitare questa catastrofe. Ma devo infrangere la legge. Non è possibile ch’io sia autorizzata preventivamente a usare la violenza”. In altre parole: se non c’è un divieto, non c’è modo di frenare un investigatore pigro, incompetente o sadico. Finché torturare sarà illegale, chi usa la coercizione deve accettare il rischio. Deve essere pronto a presentarsi in tribunale, se sarà necessario, e difendere le sue scelte.
Ipocrisia consapevole
Gli investigatori usano la coercizione perché in alcuni casi ritengono che ne valga la pena. Questo non significa necessariamente che saranno puniti. In qualsiasi paese, la decisione di perseguire un reato spetta al potere esecutivo. Un pubblico ministero, un gran giuri o un giudice devono decidere se incriminare qualcuno, e le possibilità che sia incriminata, o addirittura condannata, una persona che sta indagando su una vera bomba a orologeria sono molto poche. Al momento Wolfgang Daschner, il vice capo della polizia di Francoforte, non è stato ancora processato per aver minacciato di tortura il rapitore di Jakob von Metzler, anche se ha palesemente infranto la legge. L’amministrazione Bush ha assunto l’atteggiamento giusto sulla questione. La sincerità e la coerenza non sono sempre pubbliche virtù. La tortura è un crimine contro l’umanità. Ma quello della coercizione è un problema che è meglio affrontare chiudendo un occhio, o anche con un pizzico di ipocrisia; dovrebbe essere vietata ma anche praticata di nascosto.
Quelli che protestano contro i metodi coercitivi ne esagerano sempre gli orrori, e questo va benissimo: crea un utile clima di paura. Ha fatto bene il presidente a riaffermare la sua adesione agli accordi internazionali che vietano la tortura, e gli investigatori americani fanno bene a usare tutti i metodi coercitivi che funzionano. È una cosa intelligente anche non discutere la questione con nessuno. Se gli investigatori superano il confine tra coercizione e vera e propria tortura, devono assumersene la responsabilità. Ma nessuno di loro sarà mai processato per aver tenuto sveglio, bagnato e scomodo Khalid Sheikh Mohammed. Né dovrebbe esserlo.
Fonte: pubblicato in italiano su Internazionale, n. 512, novembre 2003 con il titolo “Con la forza e con il terrore”, traduzione di Bruna Tortorella e nota che segue:
L’opinione di Internazionale
L’articolo di Marc Bowden ha un unico difetto: le conclusioni del suo autore. È un difetto che ci ha fatto discutere molto sulla scelta di pubblicarlo. Credere che sia accettabile violare i diritti della persona quando serve all’interesse generale (che poi è sempre quello di una parte) è un principio indifendibile. L’articolo stesso, che per il resto è approfondito, informato e molto interessante, lo contraddice. Tutto ciò che racconta dimostra che la tortura è assolutamente inaffidabile e inutile per ottenere informazioni. Serve solo a scoprire qual è il limite oltre il quale il corpo e la mente di una persona si sgretolano. Non c’è morale né legge che possa giustificarla, ricorda nell’articolo la direttrice dell’ong israeliana B’T-selem, Jessica Montell. Bowden lo spaccia per un invito all’ipocrisia: gli stati dovrebbero condannare pubblicamente e lasciar correre segretamente. Forse parla così perché ha troppa paura del terrorismo. E la paura, come il dolore, fa dire qualunque assurdità.
Pierfrancesco Romano
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