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COSI’ COSTRUIAMO FRANKENSTEIN

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L’ ESPRESSO, 16 MAGGIO 2013.

Creare un cervello in laboratorio. Del tutto uguale al nostro. L’Europa ci investe un miliardo di euro. E rivoluziona le neuroscienze. I ricercatori promettono di svelarne tutti i misteri. Ma c’è chi è scettico.

COSI’ COSTRUIAMO FRANKENSTEIN.
di Nicola Nosengo.
 
Frankenstein è tornato. Abita in Svizzera e ha il volto di Henry Markram. Che la stampa di mezzo mondo chiama, appunto “Nuovo Frankenstein” da quando ha annunciato per la prima volta, ormai più di tre anni fa, di voler creare una mente artificiale. Un “cervello in scatola”, fatto di silicio e microprocessori, ma capace di simulare in modo realistico e dettagliato il funzionamento di quello umano, con tutti i suoi cento miliardi di neuroni e le loro connessioni. Un cervello sintetico in grado di ricevere stimoli dall’esterno, imparare, prendere decisioni, persino ammalarsi: e aiutare così gli scienziati a capire come funziona il cervello vero, perché si ammala e come curarlo. E proprio come Frankenstein (questa volta, quello junior interpretato da Gene Wilder nel film di Mel Brooks) Markram giura che «si può fare», a patto di avere abbastanza tempo e soldi.
La Commissione europea gli ha creduto, e così lo Human Brain Project -consorzio che raggruppa diverse centinaia di ricercatori europei sotto la guida di Markram – è uno dei due progetti usciti vincitori dal programma Flagship: un superbando lanciato nel 2010 per finanziare ricerche visionarie e di lungo termine, che stiano alla scienza e tecnologia dei nostri giorni un po’ come lo sbarco sulla Luna stava agli anni Sessanta.
Come l’altro vincitore, il progetto Graphene(vedi box), lo Human Brain Project riceverà circa 1 miliardo di euro nel corso di dieci anni per realizzare il suo obiettivo: metà dalla Commissione, l’altra metà dagli stessi partner, tra cui molte aziende.
Dopo aver convinto i funzionari europei, Markram dovrà ora convincere i suoi colleghi.Molti dei quali guardano con scetticismo a un progetto che considerano irrealistico e che rischia di monopolizzare per dieci anni i fondi (scarsi per definizione) per la ricerca sul cervello.
Eppure, insiste questo neuroscienziato sudafricano, da anni trapiantato all’École Polytechnique di Losanna, una visione ambiziosa è proprio quello di cui hanno bisogno oggi le neuroscienze.
Come ama ricordare, la ricerca sul sistema nervoso produce una media di 60 mila articoli scientifici l’anno, ma «ognuno focalizzato sul suo piccolo angolino: quella molecola, quella regione cerebrale,
quella funzione». Manca la visione di insieme, forse perché – è l’idea alla base del progetto – è al di là delle possibilità di un essere umano averla. Solo l’informatica può mettere tutto assieme.
«Dobbiamo scoprire qual è il linguaggio con cui il cervello elabora le informazioni e produce il comportamento», spiega Egidio D’Angelo, professore di Fisiologia all’Università di Pavia che con il suo gruppo è tra i partner italiani del progetto: «Oggi abbiamo conoscenze avanzate a livello cellulare da una parte, e a livello psicologico e cognitivo dall’altra. Ma il territorio intermedio, quello dei circuiti cerebrali, è difficile da studiare e contiene problemi teorici non risolti».
Insomma, sappiamo abbastanza bene come funzionano i singoli neuroni, che però da soli fanno ben poco. Sparano una scarica elettrica, rilasciano qualche sostanza chimica ed è tutto. Sappiamo abbastanza
bene che cosa fanno le diverse aree cerebrali, grandi blocchi di materia grigia che possiamo vedere in azione grazie alla risonanza magnetica. E quelle invece fanno grandi cose, come immagazzinare i ricordi, elaborare concetti astratti, governare movimenti e linguaggio. Ma su come si passi da una cosa all’altra, è buio completo.
Non conosciamo il codice, quello che permette ai neuroni di riconoscersi tra loro, creare reti, scambiarsi informazioni.
Se la genetica il problema del codice lo ha risolto decenni fa con il DNA, le neuroscienze ancora brancolano nel buio, con appena qualche sprazzo di luce qua e là. «È un problema troppo complicato per risolverlo a tavolino o studiando solo una parte del cervello», spiega D’Angelo.
Ma è, fa notare Markram, un problema matematico. Dopotutto i neuroni sono raffinati interruttori cellulari, il cui comportamento può essere descritto da equazioni, che dicono per esempio quanto calcio devono accumulare prima di “scaricare” elettricità. Sommiamo neurone a neurone, dice più o meno Markram, e troveremo le equazioni (complicate finché si vuole, ma sempre equazioni) che descrivono il cervello. E il codice salterà fuori da solo. «La nostra idea è creare una simulazione che passi dalla scala microscopica a quella macroscopica in modo progressivo facendo crescere i livelli intermedi uno a uno e confrontandoli costantemente con i dati degli esperimenti», spiega D’Angelo.
Alla fine, i neuroscienziati potrebbero avere tra le mani uno strumento straordinario per simulare come il cervello possa rispondere a diverse condizioni. Per esempio, andare a vedere che succede se si aumenta o si abbassa la concentrazione di un certo neurotrasmettitore, si uccidono neuroni di un certo tipo, o si muta un certo gene. Cose che al momento si fanno sul cervello (vero) dei roditori, ben più piccolo e semplice del nostro. Una simulazione affidabile del cervello umano accorcerebbe molto i tempi della ricerca sulle patologie del sistema nervoso. E ridurrebbe il ricorso a esperimenti sugli animali, argomento su cui Markram ha spesso fatto leva nel fare campagna per la sua proposta. Buoni argomenti, che però non convincono tutti. Come ha testimoniato un reportage della rivista “Nature” lo scorso autunno. L’articolo si apriva sull’impietoso e sintetico commento alla presentazione di Markram: «It’s crap», idiozie, per tradurre con un eufemismo. Dopotutto, fanno notare molti, alle simulazioni Markram lavora da anni nel suo istituto a Losanna e non ha ottenuto che qualche pezzettino di corteccia cerebrale di ratto, per di più incapace di ricevere stimoli dall’esterno o di produrre comportamenti interessanti. Il timore,insomma, è che tra dieci anni ci si ritrovi al più con una buona simulazione del cervello di un roditore, alla faccia dello “Human Brain” del titolo. E a quel punto, chi lo spiegherà ai funzionari della Commissione Europea e soprattutto ai contribuenti? «L’intera comunità dei neuroscienziati sarà nei guai tra dieci anni», metteva in guardia un altro osservatore. Perché se quel supercervello non sarà diventato realtà, i politici diranno: «Ma avevate promesso!». Markram insiste che il megafinanziamento europeo consentirà un’accelerazione tecnologica oggi imprevedibile, proprio come avvenne per il Progetto Genoma Umano (l’assonanza tra i due nomi è del tutto voluta) che, dopo una partenza lenta, arrivò a sequenziare il 90 per cento dei geni umani negli ultimi due anni del progetto.
L’altro timore è che il megaprogetto porti l’Europa a puntare tutte le fiches sulle simulazioni al computer, trascurando altri filoni di ricerca altrettanto promettenti.
Le neuroscienze, in fondo, sono ancora uno dei pochi campi della scienza in cui si ottengono grandi risultati con la “small science”, il lavoro di piccoli gruppi in laboratorio, dove c’è spazio per fantasia e abilità sperimentale. «Conti alla mano, il progetto spenderà circa mezzo milione di euro ogni giorno lavorativo per i prossimi dieci anni. Quanti progetti da 50 o 100 mila euro si potrebbero fare con quei soldi?», si chiede Piergiorgio Strata, presidente dell’Istituto nazionale di Neuroscienze, che intravede nel progetto il ritorno dell’idea che la mente umana sia paragonabile a un computer, che sembrava passata di moda da tempo. «Il progetto si affida troppo all’informatica ma non ha un quadro teorico forte sul cervello, e senza quello non ci sono garanzie di arrivare a ricadute utili». Su questo punto, D’Angelo fa notare che, più che sostituire altri filoni di ricerca, Human Brain si propone di riunirli, perché è da loro che verranno i dati da dare in pasto al supercomputer. Per poi creare una casa comune delle neuroscienze europee a Losanna, un po’ quello che il CERN di Ginevra è per la fisica. Quanto alle ricadute, chi lavora al progetto assicura che alcune ci saranno a prescindere, e non solo nel campo delle neuroscienze. Proprio come la conquista della Luna, che di per sé non è servita a molto, ma ha costretto la tecnologia Usa a fare un balzo in avanti di cui ancora si sentono i frutti. Simulare il cervello costringerà a sviluppare computer e processori di nuova concezione, che torneranno poi utili per molte altre cose. Lo spiega Enrico Macii, vice rettore del Politecnico di Torino, che coordina la parte italiana di Human Brain (a cui lavorano anche il Consorzio Cineca di Bologna, l’ospedale Fatebenefratelli di Brescia e l’Università di Firenze). Con il suo gruppo si occuperà di “hardware neuromorfico”, ovvero nuovi circuiti elettronici ispirati direttamente al modo in cui funzionano i neuroni. «Il simulatore avrà bisogno di potenze di calcolo 100 volte superiori rispetto a quelle odierne, e i processori tradizionali non sono sufficienti. Useremo macchine tradizionali affiancate da processori neuromorfici sviluppati appositamente». E, assicura, ci sono già molte case di elettronica interessate alle ricadute a tutto campo che ne seguiranno. Di certo c’è che sia il progetto europeo sia quello americano (vedi box a fianco)partono da una constatazione: che le neuroscienze sono in ritardo e hanno bisogno di cambiare passo.

«Come è possibile che dopo tanti anni di lavoro non esista ancora un solo farmaco contro le malattie neurodegenerative?», si chiede Stefano Gustincich, professore di fisiologia alla Scuola internazionale di studi avanzati di Trieste. Che nelle sue ricerche applica la genomica (big science per eccellenza) allo studio del cervello. «Con il cervello siamo al punto a cui eravamo 30 anni fa nella lotta al cancro. Non sappiamo ancora quanti neuroni ci siano nella corteccia, di quanti tipi siano, manca una mappa delle loro connessioni. Non è detto che quella di Human Brain Project sia la strada giusta, ma ben vengano progetti che cercano di fare il salto di qualità».

Prodigioso grafene.

Assieme a Human Brain Project, l’altro vincitore del programma Flagship della Commissione europea, è Graphene: il progetto lavorerà per tradurre in realtà le promesse del grafene, forse il materiale più promettente prodotto dalle nanotecnologie. Costituito da un foglio di carbonio di appena un atomo di spessore (spesso descritto per brevità come una rete da pollaio fatta di atomi di carbonio) questo materiale è imbattibile in quanto a resistenza, leggerezza, capacità di condurre corrente, proprietà magnetiche e termiche.
È peraltro una scoperta interamente made in Europe, che è valsa il premio Nobel per la fisica nel 2010 a Andre Geim e Kostya Novoselov, e non stupisce che la Commissione Europea abbia scelto di coltivarla con il miliardo di euro del programma Flaghsip. La lista delle potenziali applicazioni è lunghissima: transistor più efficienti (il grafene potrebbe forse sostituire il silicio nell’industria dei semiconduttori), nuovi sensori, microscopi elettronici, batterie, display e pannelli solari più efficienti di quelli attuali, parti di aereo più leggere, fino ad applicazioni mediche come protesi e retine artificiali. E anche, sulla carta,“neurochip” in grado di comunicare direttamente con i neuroni del nostro cervello,cosa che porterà probabilmente Graphene a unire le sue forze con quelle dell’altro superprogetto, Human Brain. Tutto questo a patto di imparare prima a produrre e manipolare il grafene su scala industriale,che è appunto l’obiettivo del progetto. A cui lavoreranno molti ricercatori italiani, divisi tra CNR, Enea, Fondazione Bruno Kessler, Istituto Italiano di Tecnologia, Università di Trieste,Politecnico Torino, Politecnico Milano e StMicroelectronics. Senza contare che buona parte della guida scientifica è in mano all’italiano Andrea Ferrari, che dirige il Graphene Center dell’Universià di Cambridge.Riscossa americana.

Un effetto evidente lo Human Brain Project l’ha già avuto comunque: ha messo in allarme le neuroscienze statunitensi, costrette a reagire in fretta e furia. E così, preannunciata da un breve articolo su “Science” che ne ha definito gli obiettivi scientifici, ecco la Brain Initiative (Brain Research through Advancing Innovative Neurotechnologies) risposta Usa allo Human Brain Project presentata il 2 aprile da Barack Obama. In 15 anni si propone di mappare tutti i neuroni nel cervello umano: non solo quanti sono e dove sono, ma anche cosa fanno, qual è la loro attività elettrica, che neurotrasmettitori rilasciano, da quali geni sono regolati, e così via.

E di sviluppare le tecnologie di imaging per farlo, che ancora non esistono. Ci vorranno probabilmente circa 3 miliardi di dollari. L’Amministrazione Obama per ora mette sul piatto 100 milioni, ma conta che ne arrivino molti altri dal settore privato. A differenza del progetto europeo, qui non si parla tanto di simulare quanto di fotografare l’attività del cervello con un dettaglio mai raggiunto, in pratica un identikit di ogni singolo circuito neuronale. Partendo dagli animali più semplici (il vermetto c. elegans e il moscerino della frutta, i due classici organismi da laboratorio) per poi passare all’uomo.

Foto: HENRY MARKRAM, CAPO DELLO HUMAN BRAIN PROJECT.

Foto: STUDIO DEL CERVELLO. IN ALTO A SINISTRA: RETICOLO DI NANOTUBI DI CARBONIO.

 

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Rudy Andria’s English version of the above article may be found here:https://rudy2.wordpress.com/and-so-we-build-frankenstein/

Written by rudy2

May 27, 2013 at 13:37

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